Un piccolo assaggio

Sofia e il quadrifoglio è un racconto speciale per me, quasi un talismano.
Non solo perché è stata la mia prima pubblicazione, sul numero 12 della rivista Writers Magazine Italia, ma perché ha finito per rappresentare il superamento di una soglia: oltre che per gioire e incantarmi, l’ho scritto per dimostrare a me stesso a che punto fossi arrivato, per capire se aveva senso iniziare a importunare il prossimo con le mie parole messe su carta.
A torto o a ragione ho deciso di sì, ho continuato su quella strada e, anche se gli anni passano, non smetto di essere grato alla coraggiosa protagonista di questo racconto.

Sofia cammina per le strade di Milano.
Ha un quadrifoglio nella scarpa sinistra quindi può vedere le Fate.
Al di là del chiarore dei lampioni, però, la notte è buia e fa paura.
Sofia ripensa al giornale che ha trovato sull’autobus e un brivido le corre lungo la schiena.
I giornali sono pieni zeppi di storie dell’orrore e una ragazzina come lei di solito è abbastanza assennata da lasciarsi spaventare.
Ma Sofia ha tredici anni ormai e una missione da compiere.
Così prende un bel respiro e s’immerge negli abissi della metropolitana. Ora la luce è forte, ma talmente gialla da pasticciare i colori dei suoi vestiti. Ci sono poche persone e a Sofia basta una manciata d’istanti per stringere in mano il suo biglietto. Senza abbassare la guardia, si concede un sospiro di sollievo e sale a bordo, appena in tempo per l’ultima corsa.
Il metrò fila veloce lungo la linea verde mentre nel vagone ronza un silenzio stanco. I passeggeri sono sparpagliati qua e là, nessuno parla e, se qualcuno ascolta un po’ di musica, lo fa con il volume delle cuffie basso. Non è l’atmosfera adatta per i mostri.
L’unica cosa con cui Sofia deve lottare sono i sedili duri e appiccicosi, simili alle gomme masticate che sono nascoste un po’ dappertutto. Lei, però, ha letto i giornali e così tiene i pugni chiusi, desiderando di saper arruffare il pelo come un gatto per sembrare più grande. Anzi no, preferirebbe avere gli aculei di un istrice e magari lanciarli, come le raccontava sua nonna. Meglio ancora, le piacerebbe essere come le ragazze di città che prendono la metropolitana tutti i santi giorni. O almeno saper fischiare per fingersi spensierata, come in un film…
Alla fine Sofia, pur restando prigioniera di se stessa, arriva a destinazione. Anche se le tremano un po’ le gambe quando sbuca in Centrale, è determinata e sa che deve fare più in fretta che può. Il problema è che non sa dove andare di preciso e non può chiederlo a nessuno.
Non che la stazione sia deserta, ma, anche se qualcuno facesse caso a lei, vedrebbe soltanto una ragazzina disorientata che corre su e giù per le pensiline. La verità invece è un’altra: persa in quel labirinto di panchine e binari, Sofia dà la caccia al suo Minotauro.
Per questo affronta la notte e la solitudine, stando bene attenta a non avvicinarsi troppo alle panchine isolate. Non vuole invadere il territorio di nessuno, non vuole guai, vuole solo… Sofia non sa cosa vuole davvero, ma sa perfettamente cosa intende evitare.
I suoi polmoni pescano affannosamente dall’aria carica di odori e, per soffocare il rombo del cuore nelle orecchie, comincia a canticchiare una canzone. Non ricorda bene le parole, però aiuta. Poi, d’improvviso, Sofia incespica e la melodia va in pezzi.
Con un ginocchio poggiato a terra, volta la testa di scatto, gli occhi dilatati dal panico. Dietro di lei ci sono soltanto una panchina vuota e la scarpa che le è sfuggita.
Eppure aveva avuto l’impressione che qualcuno le calpestasse il tallone…
Nella luce gialla dei riflettori, Sofia si rimette in piedi e torna a infilarsi la scarpa.
“Un quadrifoglio, eh?”
C’è qualcuno seduto sulla panchina e la sua voce è sepolcrale.
Sofia fa un passo indietro, la bocca aperta e la mente confusa: come può non averlo notato?
Lo sconosciuto si alza con un fruscio. È incredibilmente alto e il paltò scuro, insieme al cappello a tesa larga, lo fa sembrare uno spaventapasseri.
Le fa cenno di sedersi e le sue dita, affusolate come rami, scintillano di bronzo lucido. Sofia non è sicura che sia soltanto un gioco di luce, ma sa che quello è il suo Minotauro e prende posto accanto a lui. Odora di erba appena tagliata e questo la rassicura.
“Come ti chiami?”
Sofia serra le labbra: sua nonna le ha spiegato che non bisogna mai regalare il proprio nome a quelli del Popolo. Gli altoparlanti annunciano qualcosa, dandole tempo per pensare.
“Vengo da Primaluna.”
Il suo interlocutore annuisce, accettando la risposta. In fondo, in una stazione quello che conta sono la provenienza e la meta dei passeggeri.
Poi, però, trova qualcosa da obiettare.
“Nessun treno passa da lì.”
Soltanto adesso Sofia si accorge che ogni parola dello sconosciuto è uno sbuffo di vapore. Anche se l’estate è alle porte e il freddo è un ricordo lontano.
“No, è in montagna. In Valsassina.”
Sofia si morde la lingua: ha risposto istintivamente e ora teme di aver detto troppo.
Anche se lo sconosciuto sta fissando i binari, lei ha il presentimento che stia aspettando una sua mossa, forse un suo errore, per poi… Balzarle addosso? Rapirla e portarla via? Non lo sa proprio.
Preoccupata, resta in silenzio per un po’, senza riuscire a scacciare quella sensazione.
Tuttavia, stregata dallo stesso fascino di un film dell’orrore, comincia a osservare la figura che le sta seduta accanto.
Potrebbe sembrare un comune senzatetto, ma non lo è. Per quanto abbia un’aria stanca e disfatta, la sua pelle è lucida come l’ottone e liscia come la cera. Niente barba sfatta e pungente sul mento allungato, niente capillari spaccati dall’alcool sulle guance scarne, niente tracce di sporco sulla fronte alta e crucciata, niente ammaccature sul naso affilato. Eppure ogni particolare trasuda una struggente malinconia, la stessa di chi ha perso un treno importante e sa che non ne passerà un altro, non in questa vita.
All’improvviso lo sconosciuto volta la testa e Sofia incrocia i suoi occhi.
Due schegge di vetro blu notte, senza tracce di bianco o di nero. Né di sconforto o di miseria.
Sono specchi che riflettono e rifiutano la sua commiserazione, facendola sentire terribilmente stupida e fuori luogo. La paura torna sovrana.
Quando lui si alza di scatto, Sofia ha un sussulto e trattiene a stento un grido.
“Cosa vai cercando, donna di Primaluna?”
È la prima volta che qualcuno la chiama donna… Ma non può arrossire.
“Niente.”
Anche se sa che non è la risposta giusta, non trova altro da dire.
Lo sconosciuto troneggia su di lei e il suo respiro cresce fino a diventare un rombo, carico di uno sdegno freddo e distaccato, simile alle prime avvisaglie di un temporale.
Sofia deve fare qualcosa. Adesso. Subito.
Così afferra tutto il coraggio che le resta e si butta.
“Mia nonna mi parlava di voi. Della gente antica dei boschi e delle montagne. All’inizio era solo per farmi addormentare, ma poi lo faceva sempre più spesso. Raccontarmi le vostre storie, intendo. Ecco, sembrava che ci tenesse a farmi capire qualcosa. Anche quando mia madre le ha detto di smetterla di riempirmi la testa di sciocchezze. Insomma, quelle che lei chiamava così. Voglio dire, non voleva offendere nessuno, ma…”
Sofia prende fiato e stringe i pugni.
“Mia nonna credeva davvero in voi. Vi lasciava ciotole di latte, qualche biscotto da mangiare, cose così. Io ogni tanto la aiutavo, ma non so se ci credevo sul serio. Poi lei è morta, nemmeno una settimana fa. Il giorno del funerale ho visto un arcobaleno, grande e bello, e all’inizio mi sono arrabbiata perché mi sembrava una presa in giro, ma poi ho capito. Ho chiesto a mia madre cosa c’era da quella parte, nella direzione in cui finiva l’arcobaleno, e lei mi ha risposto che c’era Milano. Per questo sono venuta qui. Immagino di essere scappata da casa.”
Solo raccontandolo si rese conto di quanto fosse vero.
“Stai dunque cercando la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno?”
Strappata alle proprie riflessioni, Sofia fissa il volto enigmatico dello sconosciuto e decide che si sta prendendo gioco di lei. Anche se le lacrime le pungono gli occhi, preferisce sfogarsi con un grido:
“No! Cercavo te!”
Il temporale si smorza mentre lui torna a mettersi seduto.
“Non sei arrivata in treno eppure sei qui. Mi chiedo perché. Anche se in questa città non svettano montagne, il verde dei parchi e dei boschi non è ancora sfumato. Ed è lì che di solito venite a cercarci.”
Sofia tira su con il naso.
“Se non ti do le risposte che vuoi, mi divorerai come la Sfinge?”
Lo sconosciuto non risponde, ma lei non può più lasciarsi frenare dalla paura. Ormai è andata troppo oltre.
“Una volta mia nonna è stata a Lecco, in stazione. Non doveva andare da nessuna parte: era bambina e, visto che erano in città, volevano farle vedere il treno. I suoi genitori si sono distratti un attimo e lei si è allontanata un po’, proprio mentre arrivava la locomotiva. Dice che allora si è sentita prendere per mano ed è stata la prima volta che ha visto uno di voi. Certo, poi sono arrivati i suoi a sgridarla perché non doveva correre via, ma è stata la prima volta che vi ha visti. Strano, no? Ha passato tutta la vita a Primaluna, tra le montagne, ma questa cosa le è successa in città. Me l’ha raccontato quando ero piccola e ricordo che mi sono presa un bello spavento. Mia madre si è arrabbiata tanto. Da allora in effetti ho sempre avuto un po’ paura dei treni. Infatti non…”
Sofia interrompe quella nervosa cascata di parole, catturata dal volto dello sconosciuto.
Le sue labbra si sono ritratte e da quel taglio sottile spuntano due file di denti lunghi e scintillanti.
Di punto in bianco la sua figura non è più cupa, ma emana un chiarore dorato che fa pensare a una lampada a gas.
Superato un primo attimo di panico, Sofia si rende conto che sta sorridendo.
La luce, però, si smorza nel volgere di pochi istanti.
“Da lungo tempo ormai non portano più i cuccioli ad ammirare la partenza dei treni. Ricordo con nostalgia la meraviglia sui loro volti e l’entusiasmo nelle loro grida, autentici come il carbone e il fischio della locomotiva… Vivevo di quei momenti.”
Rimasta senza fiato di fronte a quel sorriso spaventoso, ma bello, almeno quanto le montagne russe, Sofia si rifugia nel silenzio e lo stesso fa lo sconosciuto, di nuovo malinconico.
Dopo qualche tempo lui comincia a sbuffare anelli di vapore, lentamente, con fare meditabondo.
Osservando le sue creazioni, Sofia ripensa a quando suo padre fumava la pipa.
Allora il timore evapora come neve al sole, liberando il suo cuore.
“Io vado a scuola in autobus. Non sono mai stata in una stazione, prima d’ora. Se quelle della metropolitana non contano, intendo.”
Il sorriso dello sconosciuto torna a esplodere come un flash al magnesio.
In un batter d’occhio è in piedi, accanto all’orologio del binario, e la invita a seguirlo.
Quando Sofia si alza, lui allarga le braccia come se volesse avvolgere l’intera stazione e verrebbe da credere che possa farlo davvero. D’improvviso Milano Centrale s’incendia di luce, riflettendola come un prisma, e sembra trasformarsi in un luna park.
Senza pensare, Sofia si china per sfilarsi la scarpa sinistra e prende il quadrifoglio.
Black out.
Sollevando lo sguardo, trova soltanto luci fioche e una banchina grigia e vuota.
Volta furiosamente la testa a destra e a sinistra. Niente.
Si affretta a rimettere il portafortuna nella scarpa. Niente.
Sopraffatta dal magone, Sofia si accascia sulla panchina, con il quadrifoglio di nuovo adagiato sul palmo. Poi scoppia a piangere.
“Volevo solo regalartelo…”
Singhiozza, rivolta al deserto di cemento che la circonda.
“Un quadrifoglio porta fortuna solo se lo si regala.”
Le lacrime le rigano il viso, scivolando calde fino a riempirle la bocca, ma non le importa.
Ripensa a sua nonna, Sofia, e piange. Tuttavia non è la nostalgia dei ricordi felici a farla soffrire: Ripensa alle storie che le raccontava sua nonna e alla sua incapacità di crederci.
D’altronde come puoi continuare a credere nelle Fate, quando ti spiegano che Babbo Natale non esiste e che non potrai mai vedere Dio, almeno in questa vita?
Soltanto il dolore e la morte l’avevano spinta a Milano. Soltanto la perdita della sua adorata nonna l’aveva convinta a credere ancora una volta. Bell’affare…
Ora Sofia si trova sola e sconvolta, disperatamente lontana da casa.
D’un tratto il fischio di un treno sovrasta il suo pianto, ma non può certo consolarla: nessun binario porta a Primaluna.
Anche se non vorrebbe farsi vedere in questo stato, Sofia non trova la forza di alzarsi e si limita a chinare il capo, coprendosi il viso con la mano libera.
Lo sferragliare delle rotaie si mescola al suo respiro spezzato, assordandola.
A stento si accorge che qualcosa le sfiora le dita che trattengono il quadrifoglio.
Sofia ritrae la mano di scatto e volta la testa. Il palmo è vuoto.
Ma c’è ben altro da vedere.
La carrozza di fronte a lei è illuminata a giorno da una luce sfolgorante. Attimo dopo attimo si fa rossa oppure blu o magari gialla, come se scaturisse da un milione di alberi di Natale.
E su quello sfondo arcobaleno si staglia lui, lo sconosciuto che tanto le mancava.
Le sue braccia riempiono il vano mentre tengono aperte le porte e il suo sorriso è un faro.
Ora sul taschino del paltò scuro spicca un quadrifoglio.
“Coraggio, dillo.”
La sua voce riecheggia per la stazione, sepolcrale e allegra al tempo stesso, come un funerale africano.
Cedendo a quell’invito, le labbra spalancate di Sofia modellano un deliziato: “Che meraviglia…”
Lo sconosciuto esplode in una risata soddisfatta e ticchettante come i tasti di una macchina per scrivere. Poi balza a terra, lasciando che le porte si chiudano alle sue spalle.
“Non sali, donna di Primaluna?”
“Non so dove porta.”
Gli occhi di vetro blu notte catturano quelli nocciola.
“Ti condurrà a casa oppure ovunque tu desideri.”
Sofia accenna un’obiezione, ma poi si morde un labbro.
“Quando passa il prossimo treno?”
“Attende un mio cenno.”
A quel punto lei sorride e si asciuga le lacrime.
“Allora ne aspetto un altro. Questo voglio vederlo partire.”
Gentile come un soffio di vento, lo sconosciuto si volta verso il binario e la prende per mano.
Un fischio e il treno si mette in moto, con la sua lentezza che ha propiziato tanti addii.
E Sofia resta a osservarlo, insieme a una Fata uscita dalle storie di sua nonna.
A legarli c’è tutta la magia di un quadrifoglio.